La tortura come routine quotidiana: un testimone dalle prigioni israeliane

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19 dicembre 2024
Il suo viso è scavato, la pelle bianca tirata su zigomi prominenti. Gli occhi, stanchi ma spalancati, non si fermano mai. Abed è appena uscito dalla prigione di Al-Naqab, nel sud di Israele, cinque giorni fa. Non riesce ancora a crederci.

“Ho perso 60 chili in meno di un anno”. Mostra una gigantesca foto di sé appeso nell’atrio: un uomo grassoccio e muscoloso, sorridente con una bambina in braccio. “Quella è mia figlia, quello sono io. È passato un anno”. L’uomo di fronte a me sembra lo spettro dell’immagine appesa. Persino la bambina che zompa dietro di noi non sembra riconoscerlo: quando suo padre la chiama per nome, si getta tra le braccia del cugino, quasi spaventata. “Mia figlia quando mi ha visto per la prima volta si nascondeva, mi chiamava zio. È stato così triste”.

Il messaggio di Abed al mondo

Abed ha 28 anni e di professione faceva il fornaio. Lo hanno arrestato lo scorso dicembre in un raid notturno in cui l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella sua casa sfondando la porta, rompendo diversi mobili e finestre. E lo hanno portato via. Non avrebbe più avuto notizie della sua famiglia né avuto contatti con il mondo esterno fino al 30 novembre 2024.

Siamo a casa sua nel campo profughi di Jenin, forse la città più colpita dagli attacchi israeliani in Cisgiordania nell’ultimo anno. Per arrivarci, bisogna percorrere diverse strade allagate di fango e acqua, con una vista panoramica su cumuli di detriti e case danneggiate o demolite. In effetti, la distruzione da parte dei D9 e delle ruspe di Tel Aviv non ha risparmiato nessuna infrastruttura nel campo, che è considerato da Israele una delle roccaforti della resistenza in Cisgiordania: ogni strada, così come i sistemi idrici ed elettrici, sono stati sistematicamente e metodicamente devastati.

“Mi hanno arrestato solo perché sono palestinese”, inizia il racconto di Abed, che si sforza di sottolineare di non essere legato a nessun partito e di non far parte della resistenza. “Le condizioni in cui ci tenevano erano terribili. Non so se riuscirò a parlare di ciò che ho vissuto… nemmeno gli animali vengono tenuti così”. Ma poi, è un fiume di parole.

“Mi hanno dato lo shampoo sei volte in un anno”, racconta. “Potevamo fare la doccia, ma non ci davano niente con cui lavarci”. Prima del 7 ottobre, la vita dei palestinesi in prigione era diversa. Poi i detenuti hanno subito la vendetta di Israele sulla loro pelle. “Siamo diventati dei numeri. Ci chiamavano sempre per numero”. Ce lo mostra, era scritto a pennarello sulla sua carta d’identità. Doveva essere di sette o otto cifre; leggerlo è come tornare indietro a momenti della storia che si sperava fossero stati superati. “Il primo giorno mi hanno dato un piatto di plastica, un cucchiaio e una forchetta, quelli usa e getta. Ho dovuto usarli per un anno”. Sorride. “È pazzesco, ma quando sono uscito, volevo portarli con me. Non so più come usare quelli veri.”

Erano in 14 a vivere in una cella fatta per nove persone. Dormivano senza materassi, in letti duri come pietre o sul pavimento, stretti l’uno all’altro per stare al caldo. “Non avevamo abbastanza vestiti e non ci davano niente per coprirci. La gente si faceva i calzini tagliando pezzi dalle coperte.” Abed ha continuato, “Quando ci portavano il cibo, non era abbastanza per gli esseri umani. Non era abbastanza per sopravvivere… Ho perso 60 kg, ma se la mia situazione in prigione non era così buona, le condizioni di molti altri erano peggiori.”

Le notizie da fuori dalla prigione arrivavano solo quando arrivavano nuovi detenuti. Non c’era alcun contatto con il mondo esterno. “Dal 7 ottobre, ci hanno portato via tutto: niente TV, niente libri, niente giornali, niente visite, niente lettere ai familiari, nessun contatto con l’avvocato.” Nemmeno le udienze erano un’occasione per incontrare l’avvocato o un volto amico. “Non c’era un vero tribunale, era un’aula, hanno spostato tutto online”. Aggiunge: “Ogni volta che ci spostavano dalla cella a quella stanza, o da qualche altra parte, sapevamo che non saremmo tornati sani”. Le percosse erano la norma, e potevano anche arrivare durante le numerose perquisizioni o conteggi che facevano dei detenuti in cella.

“Ho la scabbia. Quasi tutti in prigione hanno la scabbia, almeno il 90 percento… Io l’avevo su tutto il corpo… non era normale. Non ci davano medicine. Era una tortura”. Poi racconta di un episodio strano. “Una volta finalmente mi hanno mandato dal ‘dottore’ – in prigione non c’era un ospedale, e comunque non ti davano niente… c’era un gruppo di persone che non erano israeliani, erano internazionali. Ho chiesto a uno di questi ‘dottori’ da dove venisse, mi ha detto [che era] francese; non mi ha aiutato. A volte penso che ci stessero facendo dei test, come se fossimo animali”.

Ripete più volte: “Voglio solo essere considerato un essere umano, non importa che io sia palestinese, sono un essere umano”.

Ci mostra un video di quando è stato rilasciato dalla prigione qualche giorno fa. Quando è stato rilasciato, è stato accolto da una folla di familiari e amici, dove ha abbracciato sua madre e ha pianto. “Per un anno non ho mai pianto. Ma non appena ho visto mia madre, ho pianto”, racconta. “Mia madre era malata. Non potevo mai scriverle. Ma ogni volta che avevo la possibilità di vedere la luna dalla mia cella, le mandavo un messaggio attraverso la luna…”

Almeno 47 detenuti sono morti nelle prigioni israeliane dal 7 ottobre a causa di torture o mancanza di cure da parte di Israele. Gli chiedo se ha assistito a tali incidenti. Lui ribolle. “Uno di questi 47 era nella mia cella”, dice. “Lo hanno portato, che era già stato picchiato a morte; era ferito. Lo avevano trasferito lì. Poi lo hanno picchiato di nuovo. Di notte entravano e ci contavano, lo facevano spesso. Era inverno, faceva freddo. Era ancora steso a terra, perché era malato, non riusciva ad alzarsi. Ricordo di aver visto sangue uscire dal suo petto, credo che avesse un’emorragia interna ma anche un’emorragia esterna, stava sanguinando. La polizia lo ha preso e portato fuori dalla cella, l’ho visto. L’hanno lasciato lì all’aperto per ore e ore. Ci ha messo sei ore per morire. Davanti ai miei occhi.” Volevano ucciderlo, dice tra le righe. Era politicizzato, del partito Hamas. Non ha voluto dire il suo nome.

Ha paura, non vuole tornare in prigione. “Non voglio più vivere quella condizione di vita”, dice. Lo stato di Israele infatti non dimentica. Abed ci indica Karim, un ragazzino di forse 15 anni che è seduto al suo fianco dall’inizio della chat. “Ogni volta che fanno irruzione qui nel campo, i militari entrano in casa sua e picchiano tutta la sua famiglia. Questo perché un membro della sua famiglia in passato ha avuto rapporti con la resistenza… Anche se è morto, continuano a vendicarsi e punire tutta la famiglia. Picchiano tutti.”

“Anche se crediamo nella pace, dov’è la pace? Io voglio la pace. Israele non vuole la pace.”

Mi chiede se può lasciare un messaggio per il resto del mondo. Prende il mio quaderno e scrive in grandi caratteri arabi, sottolineando più volte le parole:

TUTTI I PALESTINESI AMANO LA VITA.

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