Visita di solidarietà al campo di Nur Shams, in seguito alla morte di Abdulrahman Abu Daghash e Oseed Farhan Abu Ali, uccisi da colpi indiscriminati delle forze di occupazione israeliane durante il raid di domenica 24 settembre.
Fa caldo, è il terzo giorno di lutto. Continuano le visite, solo donne, gli uomini non ci fanno entrare. Invece “venite con me sono il fratello”, e ci porta di sopra a casa sua, anzi no prima andiamo sul tetto a vedere. Non il panorama, ma la strisciata di sangue lasciata da Abdulrahman. “Era salito a vedere, io gli dicevo vieni dentro, è pericoloso. Cade in avanti, cerco di trattenere il corpo, non ce la faccio, ho sangue sulle mani, forse mi hanno colpito. No è lui che sanguina, chiedo aiuto. Mia moglie e sua moglie vedendolo si bloccano sul tetto, non riescono a reagire. Finalmente qualcuno mi aiuta, viene chiamata l’ambulanza. Ora che arriviamo giù l’ambulanza è già lì, girano sempre durante i raid. Ma sono arrivati i soldati con le bombe sonore, cercano di impedire all’ambulanza di partire. Finalmente riesce ad andare, ma noi restiamo barricati in casa per un’altra ora e mezzo, assediati dai soldati”

la terrazza insanguinata, dove è stato ucciso Abdulrahman
Mohmen racconta:
“Ero salito a vedere, io gli dicevo vieni dentro, è pericoloso. Cade in avanti, cerco di trattenere il corpo, non ce la faccio, ho sangue sulle mani, forse mi hanno colpito. No è lui che sanguina, chiedo aiuto. Mia moglie e sua moglie vedendolo si bloccano sul tetto, non riescono a reagire. Finalmente qualcuno mi aiuta, viene chiamata l’ambulanza. Ora che arriviamo giù l’ambulanza è già lì, girano sempre durante i raid. Ma sono arrivati i soldati con le bombe sonore, cercano di impedire all’ambulanza di partire.Finalmente riesce ad andare, ma noi restiamo barricati in casa per un’altra ora e mezzo, assediati dai soldati”.

Vista dalla terrazza, il cecchino era su un tetto più a sinistra
Mohmen racconta del suo rapporto con il fratello:
“Lavoravamo insieme, eravamo molto vicini, non so come farò, i suoi figli saranno come i miei”.
Incontriamo il padre nell’area “lutto” nel cortile:
“dovete raccontare a tutti come ci trattano, non c’entrava niente, colpito da un cecchino che ha fatto il tiro al bersaglio, non poteva sparare a una spalla? cercava l’occhio, è morto in ospedale!”
Sembra che l’obiettivo raggiunto sia di mettere insieme tutti, saranno sempre più attivi contro l’occupazione.
Usciamo, c’è un altro martire. Fa molto caldo, sarà l’una, forse troviamo un taxi, ma siamo in cinque, non ci stiamo, intanto andiamo, per fortuna eravamo in alto sulla collina, il cecchino aveva sparato da un tetto più basso. Quindi scendiamo e risaliamo dopo un po’ per raggiungere la piazza centrale del campo. Che distruzione! Che macello ha combinato l’esercito di occupazione: un palazzo sventrato, le strade sfasciate. Un angolo tra vicoli strettissimi, la seconda casa. Qui ci sono solo donne, ma accettano anche me e T. Avanti, ci asciughiamo il sudore, nella stanza in fondo ci ricevono la madre e la sorella.
“Usaid aveva solo 21 anni, era come tutti i ragazzi di qui, sognava di fare lo scrittore, di fare felice la mamma, era come tutti qui, disprezzano la morte, tanto che vita è questa, in un mese due raid”, anche al terzo giorno ci sono molti scoppi di pianto. Fatte le condoglianze però arriva da mangiare, una signora sorridente dice che ha cucinato lei, tanti tavolini apparecchiati, tutte si fanno sotto, a parte yogurt e humus, ci sono teglie con carne trita a strisce condita in modi diversi. Ma noi cerchiamo di sbrigarci, D. deve andare e anche noi dobbiamo rientrare a Ramallah.

Uno dei bulldozer all’opera nella notte
Cosa è successo? Verso la mezzanotte tra sabato e domenica, ingenti forze di occupazione hanno attaccato il campo profughi di Nour Shams, quasi attaccato a Tulkarem. Decine di mezzi, supportati da tre bulldozer, attrezzati di una specie di rostro posteriore, atto a penetrare le strade, rompere l’asfalto, le tubazioni dell’acqua e quelle elettriche. A Jenin si erano fatti fregare con esplosivi nascosti sotto l’asfalto, che aveva danneggiato gravemente i loro mezzi. Ora gli esplosivi glieli
tirano addosso, ma ormai entrano sempre nei campi con questi rostri a distruggere quello che possono. A Nour Shams l’ultimo raid era stato solo 20 giorni prima e non avevano ancora finito di riparare i danni. Le sirene di allarme sono suonate subito, la resistenza ha combattuto per quattro ore, con sbarramenti di fuoco, esplosivi e imboscate all’esercito che ha presto avuto bisogno di rinforzi. Come sempre non si sa nulla dei danni ai
mezzi e dei feriti israeliani. Qualche mezzo hanno dovuto trascinarlo fuori. Per attaccare la palazzina hanno usato razzi, apparteneva a un ragazzo ammazzato nel 2001, dicono che ci si nascondevano combattenti e che avrebbero trovato dell’esplosivo, difficile che sia vero, perché sarebbe saltato per aria tutto.

l’edificio distrutto

distruzione nel campo Nur Shams
Ma dove siamo? A Tulkarem, cittadina del nord, attaccata al muro di separazione. Siamo a solo cento metri sul livello del mare, allo sbocco di alcune valli. Beninteso anche qui qualche colonia intorno. Così bassi rispetto a Nablus, fa molto più caldo ed è anche più umido. A. abita su una collina che divide due valli discendenti, però per avere un po’ di aria bisogna arrivare quasi al mattino. Dal suo tetto mi mostra i due campi profughi, uno per lato: “Nour Shams” più a est, “Tulkarem” a ovest
attaccato alla città. Molti lavoratori sono transfrontalieri, ma qui gli israeliani hanno anche impiantato una decina di fabbriche. Gli operai vengono da qui, ma la dirigenza entra direttamente dall’altro lato. Prima delle visite abbiamo partecipato a una delle iniziative per i prigionieri, con tanti bambini.

Bambini all’incontro per i prigionieri a Tulkarem
La parte agricola ha parecchie serre, c’erano anche molti aranci, ma le costruzioni se le sono mangiate.
Abu Sara