Negli ospedali di Gaza: l’infermiera Ghada e la guerra di Israele contro gli operatori sanitari

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3 giugno 2025      Noor Abu Mariam
Esito a definire Ghada un’eroina, perché lei stessa rifiuta questa etichetta. “Siamo umani”, mi ha detto. “Ed è nostro dovere”.
A Gaza, la guerra non si svolge solo in prima linea o nei cieli. Si insinua nei corridoi degli ospedali, travolge i pronto soccorso e prende di mira coloro che cercano di salvare vite umane.

Israele continua a compiere massacri contro i civili palestinesi a Gaza. (Foto: tramite WAFA)

Tra le tante storie di inimmaginabile sofferenza e silenzioso eroismo c’è quella dell’infermiera Ghada, una donna sopravvissuta a quattro assedi all’ospedale Al-Awda nella zona di Tal Al-Zaatar e che continua a portare il peso di quei giorni.

Ghada ricorda tutto chiaramente. Durante uno degli assedi, lei e otto colleghi erano barricati in sala operatoria, lottando per assicurarsi anche le scorte alimentari più basilari.

“A quel tempo, riuscivamo ancora a raggiungere un piccolo supermercato vicino all’ospedale per procurarci generi alimentari di base. Ero con otto colleghi in sala operatoria, lottando per assicurarci solo l’essenziale per sopravvivere. Sapevamo di essere sull’orlo della fame”, ha raccontato al Palestine Chronicle.

Poi arrivò il 18 novembre. Ghada era in sala operatoria con diversi medici quando si resero conto di essere circondati. Chiusero le porte a chiave, sperando di proteggersi. Nel giro di pochi minuti, le forze israeliane iniziarono a colpire con violenza, illuminando con raggi laser la loro sezione dell’ospedale.

Tutto il personale maschile ricevette l’ordine di uscire, fu costretto a spogliarsi, fu perquisito e interrogato. Quello che seguì fu il caos. Secondo i resoconti raccolti in seguito dal personale dell’ospedale, i soldati israeliani aprirono il fuoco senza distinzione. Alcuni uomini riportarono ferite lievi, altri caddero a terra per le forti emorragie.

“Aprirono il fuoco senza pietà. Alcuni riportarono ferite lievi; altri sanguinarono copiosamente e persero conoscenza. Nessuno fu risparmiato. Chi respirava ancora fu giustiziato sul posto”, ci ha raccontato Ghada, aggiungendo:

“Molti feriti furono gettati sul cannone di un carro armato, che iniziò a ruotare. Alcuni caddero sotto le ruote. Altri morirono di puro terrore. Fu, come descrisse in seguito un sopravvissuto, un atto di pura brutalità”.

Alcuni erano ancora vivi, ma chiunque mostrasse segni di vita fu giustiziato sul posto. Alcuni sopravvissuti furono gettati sul cannone di un carro armato, che iniziò a ruotare. Diversi caddero sotto le ruote. Altri morirono di puro terrore.

Gli operatori sanitari, già stremati, già distrutti, divennero vittime della stessa violenza che cercavano di curare.

Tra i ricordi che più tormentano Ghada c’è quello della sua collega, l’infermiera Ola. La notizia giunse in ospedale durante uno degli assedi: l’intera famiglia di Ola era stata uccisa. Le sue urla echeggiavano nel reparto mentre chiamava a gran voce i suoi figli. Non c’era tempo per piangere. I feriti continuavano ad arrivare e lei doveva continuare a lavorare.

Poi iniziarono ad arrivare i corpi: prima il marito di Ola, poi sua figlia Lama, poi suo figlio Mohammad. Ola crollò. Solo uno dei suoi figli era disperso: il tredicenne Amr.

Lo trovarono ore dopo, seduto in silenzio in un angolo dell’ospedale, troppo sconvolto per parlare. Era sopravvissuto al massacro, ma non al trauma.

Il giorno dopo, un’altra casa vicino a dove si era rifugiato fu bombardata. La pace non tornò mai nei giorni e nelle notti di Amr. “Mio fratello Mohammad respirava ancora sotto le macerie… era vivo… non posso credere che se ne sia andato”, continua a ripetere a sua madre.

Ghada si ritrova spesso a rivivere quei giorni, ancora incredula di essere sopravvissuta. Cerca di reprimere i ricordi, di reprimere il flusso di emozioni, ma le ferite psicologiche persistono. La fede è la sua ancora. È ciò che le dà la forza di credere che, un giorno, la guarigione potrebbe essere possibile.

Il 18 maggio, esattamente alle 15:00, stava andando al lavoro – proprio come aveva fatto tante altre volte – quando un quadricottero ha colpito il suo team vicino all’ospedale. È sopravvissuta all’attacco. Ma qualcosa dentro di lei è cambiato. Da allora non è più riuscita a tornare al suo lavoro. Ciò che le rimane ora è un peso che porta ogni giorno: un pesante senso di colpa per essere sopravvissuta, per potersi muovere liberamente, mentre altri non possono.

I suoi colleghi sono ancora all’ospedale Al-Awda. Non hanno accesso al cibo. La loro situazione diventa più disperata ogni giorno che passa. Mi sono seduta spesso accanto a lei mentre piangeva: lacrime di paura, di impotenza, di angoscia per coloro che aveva lasciato indietro. Il senso di ingiustizia brucia nel profondo: che lei, per puro caso, sia riuscita a fuggire, mentre altri sono ancora intrappolati in un luogo che un tempo era un centro di guarigione, ora trasformato in una prigione.

Tuttavia, rimane in contatto con loro quotidianamente. Prega per loro costantemente. Si aggrappa alla speranza che quei giorni orribili non tornino, che in qualche modo, questa volta, il peggio sia alle spalle.

Eppure, persone come Ghada raramente fanno notizia. I loro nomi non circolano nei titoli o negli hashtag di tendenza. Ma la loro resistenza è reale. Non avviene con le armi, ma con na compassione. Con la perseveranza. Con il gesto silenzioso di presentarsi ogni giorno per prendersi cura dei feriti, degli afflitti, dei morenti.

Esito a definire Ghada un’eroina, perché lei stessa rifiuta questa etichetta. “Siamo umani”, mi ha detto. “Ed è nostro dovere”.

Tuttavia, dobbiamo ricordarla. Dobbiamo ricordare tutti quelli come lei. Non dobbiamo permettere che la loro sofferenza venga messa a tacere. Non dobbiamo permettere che venga dimenticata.

(The Palestine Chronicle)

– Noor Abu Mariam è una studentessa ventenne di Economia Aziendale presso l’Università Al-Azhar di Gaza, specializzata in inglese. Essendo di Gaza, attualmente si concentra sull’uso della scrittura come potente strumento per condividere la sua storia con il mondo, con l’obiettivo di far luce sulle esperienze e la resilienza della sua comunità. Ha contribuito con questo articolo al Palestine Chronicle.

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